Nel linguaggio comune accade molto spesso che, tristezza e depressione, vengano utilizzati in modo inappropriato come se avessero lo stesso valore. In realtà dobbiamo fare attenzione al loro utilizzo perché hanno dei significati diversi.

Tristezza: un’emozione da non temere

La tristezza è un’emozione che ci segnala un senso di perdita reale o anticipata di qualcosa, di qualcuno o di uno status o ruolo; ad esempio la perdita di una persona cara, del lavoro, di una relazione intima significativa, del ruolo genitoriali o un fallimento personale. Quando perdiamo qualcosa o qualcuno diventiamo tristi e molto spesso tendiamo a ruminare auto-svalutandoci e rimproverandoci su ciò che è accaduto.

Questi processi di pensiero tendono a modificare anche la nostra fisiologia e i nostri comportamenti. La nostra postura cambia, diventa ricurva, in segno di chiusura verso qualsiasi tipo di alternativa possibile e anche la mimica facciale assume tratti caratteristici, come fronte corrugata, labbra piegate e sguardo perso nel vuoto. A livello comportamentale inoltre si possono identificare dei comportamenti che spesso accompagnano la tristezza, quali ad esempio crisi di pianto, perdita di interesse e motivazione e mancanza di appetito. Tutto questo si accompagna a continue lamentele e recriminazioni rivolte verso di sé, nella percezione di non aver fatto abbastanza.

L’intensità emotiva della tristezza varia in base al valore attribuito all’oggetto perso e come tutte le emozioni ha un inizio ed una fine, ha dunque una durata limitata.

La tristezza è un’ emozioni primaria e perciò fondamentale per l’essere umano ed in quanto tale non deve essere evitata o confusa con la depressione.

Quando diventa depressione?

Quando lo stato di tristezza assume un senso di perdita sempre più generalizzato che compromette la nostra vita e il nostro funzionamento in più ambiti, dal lavoro alle relazioni allora si parla di dimensione depressiva. La depressione è una patologia molto più invasiva e più invalidante che alimenta una visione negativa di sé, degli altri e del mondo.

La persona è sempre più condizionata dalla percezione del proprio stato emotivo e dalle limitazioni che esso comporta. Una volta che tale processo ha inizio, viene a crearsi un circolo vizioso negativo caratterizzato da sintomi di diversa natura:

  • Cognitivi: ridotta capacità di concentrazione, grosse difficoltà a prendere delle decisioni, facile distraibilità e difficoltà di memoria. Tendenza a incolparsi, svalutarsi, sentirsi indegno. Ruminazioni su presunti errori passati, mancanze personali o fallimenti.
  • Affettivi: umore depresso, tristezza, irritabilità, apatia, pessimismo, insoddisfazione, senso di impotenza, perdita della speranza, disperazione, senso di vuoto, angoscia, perdita di piacere nello svolgere attività che prima erano attivamente ricercate, ritiro sociale, diminuzione del desiderio sessuale, pensieri di morte.
  • Motivazionali: mancanza di interessi, obiettivi e scopi.
  • Comportamentali: diminuzione o perdita di appetito e sonno, rallentamento o agitazione psicomotoria, evitamento delle relazioni e isolamento sociale, comportamenti passivi, lamentele, riduzione dell’attività sessuale, tentativi di suicidio.
  • Fisici: stanchezza, mancanza di energia, mal di testa, palpitazioni o tachicardia, dolori muscolari, alle ossa, alle articolazioni e addominali, stipsi o diarrea, sensazione di avere la testa confusa o vuota.

Questi sintomi interagiscono tra loro, si mantengono e aggravano il quadro psicopatologico.

La persona si sente responsabile, addirittura colpevole del proprio stato di sofferenza e molto spesso è convinta di non poterne uscire. È fondamentale avere in mente che anche questo è un aspetto caratteristico della malattia. Non si tratta, dunque, di mancanza di volontà o di impegno, ma delle conseguenze della depressione sulla persona.

Sulla base delle specificità di alcune componenti depressive e la compresenza di altri sintomi psicopatologi, possono configurarsi diversi quadri diagnostici quali ad esempio il Disturbo depressivo maggiore, il Disturbo depressivo persistente (Distimia), il Disturbo disforico premestruale.

Cosa si può fare se la tristezza persiste?

Se il calo dell’umore è transitorio ed in risposta ad un lutto, alla fine di una relazione, alla perdita del lavoro, ad una bocciatura o esame fallito, a problemi economici, a gravi malattie recenti o patologie croniche, a eventi stressanti anche per cambiamenti positivi (laurea, matrimonio o convivenza, nascita di un figlio voluto, trasferimenti, promozioni, pensionamento), non dobbiamo allarmarci ma darci del tempo per ritrovare il nostro equilibrio, eventualmente cercando un supporto psicologico per la reazione depressiva.  

Se i sintomi di tipo depressivo però persistono, occorre chiedere aiuto ad uno psicoterapeuta o psichiatra. I disturbi depressivi non curati possono portare gravi conseguenze, tra cui il cronicizzarsi e il peggioramento dei sintomi, con una compromissione anche invalidate della qualità della vita personale, familiare, sociale, scolastica e lavorativa. Vi sono casi trattabili esclusivamente attraverso la psicoterapia, altri attraverso un approccio combinato in cui risulta fondamentale anche l’intervento farmacologico soprattutto nelle forme medio-gravi.

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